Di corsa sui geta

Kyoto

Il ticchettio del legno sulla pietra, mentre Chio corre attraverso i torii rossi con i suoi piccoli geta ai piedi. Cerco di immaginarla davanti a me correre nel kimono chiaro con l’obi arancio come gli infiniti torii del sentiero.
Piccola e un po’ goffa ancora non lo sa, ma ha incontrato l’amore della sua vita e sta correndo verso un futuro che la trasformerà in Sayuri e la porterà da lui, il direttore generale.
“Memorie di una geisha” è un romanzo che ho amato. Quando ho visto la trasposizione cinematografica sono rimasta incantata da quel mondo “tanto proibito quanto fragile, [che] senza i suoi misteri non può sopravvivere.” La breve scena in cui lei percorre il sentiero del tempio Fushimi Inari a Kyoto mi ha rapita ed è subito entrato a far parte della mia bucket list. Così, quando finalmente siamo riusciti a realizzare il sogno di un viaggio in Giappone, l’ho voluto lasciare per ultimo e godermi la passeggiata in questo luogo straordinario come congedo da questo paese incredibile.

Sì lo so, chi ci è stato sicuramente avrà qualcosa da dire sulla quantità di gente che affolla questo tempio, ed è stato così anche quando lo abbiamo visitato noi. Ma arrivando al mattino prestissimo e inoltrandosi sulla collina fino a percorrere interamente i 4 km del sentiero, siamo riusciti ad evitare la folla e a precedere molti di coloro che avrebbero visitato l’intera struttura.

Così ho coronato il mio sogno, e come Chio ho camminato sulle pietre sconnesse incorniciate dai portali, con macchie di muschio verde acceso qua e là. Il fruscio della foresta nella quale è immerso il tempio è a tratti l’unico suono che si sente. Il sole del mattino inizia a filtrare tra le foglie e tra i torii, un doppio rincorrersi dei raggi e una moltiplicazione dei giochi d’ombra, metre il tepore del giorno esalta il profumo umido e terroso del bosco. Il ritmo ossessivo delle colonne nere e arancio rapisce lo sguardo e trascina fuori dal tempo, portando l’immaginazione alle migliaia e migliaia di passi che su quelle pietre hanno lasciato un’impronta sonora: piedi nudi, pelle indurita…tum tum…geta di legno…toc toc…zori di paglia di riso, semplici waraji di corda di un pellegrino, gli eleganti okobo di una maiko, con un suono più delicato e un ritmo più veloce, come sono i passetti permessi dallo stretto kimono…tic tic tic…fino ad arrivare alle moderne sneakers dei turisti, che di rumore non ne fanno e di poesia non ne creano.

Mentre cammino sole e ombra si alternano velocemente sul mio viso e cerco l’attimo giusto per fotografare, ma solo gli occhi possono realmente catturare la magia di questo luogo unico.

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Il Fushimi Inari Taisha è dedicato al kami Inari, il dio del riso, patrono degli affari, dei commercianti e degli artigiani; ognuno dei torii è stato donato da un’azienda giapponese. E’ intriso della fede, della speranza e delle preghiere di tutti coloro che, faticando nel lavoro, qui ripongono la propria fiducia. A intervalli si incontrano piccoli santuari, dove numerose statue di kitsune, le volpi messaggere di Inari, osservano i passanti tra le volute del fumo di incenso. Musi appuntiti, occhi vispi incorniciati da piccoli fazzoletti rossi legati al collo, talvolta con la simbolica chiave del deposito del riso tra le fauci, le volpi vengono venerate a mani giunte da coloro che arrivano al tempio per pregare.

Proseguendo verso la cima della collina, prima di ridiscendere, si godono scorci panoramici sulla sottostante città. Kyoto è come un’anziana, elegante signora, profondamente diversa dalla scintillante, energica, maschile Tokyo. Le case sono romanticamente scalcinate, le foreste di pali della luce, con la moltitudine di cavi sospesi, sono in qualche modo più fitte e il ritmo, il respiro della città sono più lenti.

Osservo dall’alto cercando di intuire dove sia cosa…forse dove i raggi del sole si fanno strada tra le nuvole c’è il distretto di Gion, dove le case antiche scendono e salgono accanto alle scalinate di Ninenzaka e Sannenzaka. Questo quartiere è bellissimo, paradigmatico, intrigante se si pensa a tutti i mondi che esistono dietro le porte scorrevoli e i noren, le tradizionali tende a mezza lunghezza che si scostano per entrare in un ristorante.

E’ certamente molto turistico, ma questo quartiere riesce a mantenere un’atmosfera autentica, e dà il meglio di sé al calare del sole, quando i negozi chiudono, i turisti si ritirano e lampioni e lanterne iniziano a emanare il loro bagliore, illuminando delicatamente il lucido lastricato delle vie. Un incanto soffuso, elegante; le chiacchiere pacate degli ospiti delle esclusive sale da tè si sentono in lontananza, alternate al tintinnio dei brindisi sottolineati da allegri kampai!, allo sciabordio del chasen, il frustino di bambù utilizzato per mescolare il tradizionale tè verde in polvere, forse la risata melodiosa di una geisha che intrattiene i suoi ammiratori. Da una finestra proviene il suono metallico e vagamente stonato di uno shamisen, forse è proprio una geisha a suonarlo. Questo suono è così radicato nel mio immaginario legato al Giappone che mi rapisce e in un attimo sento quel veloce tic tic tic degli okobo. Mi volto e vedo Chio, ormai trasformata in Sayuri, che con la benedizione della okasa dell’okiya, la madre della casa, e un’occhiataccia di Hatsumomo, si reca alla sua prima apparizione come maiko, come apprendista, insieme a Mameha. Pelle come pesca, bocca come un bocciolo, occhi come laghi calmi; mi ricorda il gioco che facevo da piccola con mia madre, che mi passava le dita sul volto dicendo queste parole. In un frusciare di seta colorata Sayuri scompare e rimango a osservare l’iconica pagoda Yasaka a cinque livelli, sullo sfondo un tramonto nuvoloso, nella speranza di incontrare ancora una geisha.
Ma in questa passeggiata a Gion ho già avuto fortuna e una maiko mi ha regalato con grazia un sorriso indimenticabile…

Percorrendo la via in discesa, passando sotto a un ciliegio che si prepara per l’hanami, ci dirigiamo verso il fiume e, dopo averlo attraversato, arriviamo nel quartiere Pontocho. Dai numerosi ristoranti proviene il profumo delle pietanze e noi scegliamo Agotsuyu Yamafuku per assaggiare l’ultima specialità che ancora non abbiamo provato: lo shabu shabu, il tradizionale piatto a base di verdure e fettine sottilissime di carne cotte al momento nel brodo bollente.

Una cena indimenticabile, per me forse la migliore del viaggio, a pari merito con la cena kaiseki da Ise Sueyoshi a Tokyo e la cena casalinga preparata per noi dalla gentile proprietaria del Kanja Ryokan, dove abbiamo soggiornato nel villaggio di Ogimachi.

Nulla più del cibo caratterizza i miei ricordi di viaggio; nulla più del cibo, del suo sapore, del modo in cui viene preparato, parla della cultura di un popolo. In Giappone tutto si svolge con un rituale, con ordine, con un susseguirsi di azioni preciso che, a noi occidentali in confronto così sgraziati, mette non poco in difficoltà. A partire dal lasciare le scarpe all’ingresso rimanendo in equilibrio su un percorso di ciottoli e ripiegare le nostre lunghe gambe stanche sotto il bancone ribassato della cucina, sedendoci a livello del pavimento sui tatami. Ma la gentilezza del personale ci mette subito a nostro agio, mentre ascoltiamo attenti la descrizione di quanto sta per essere servito. In una pentola sul fornello davanti a noi sobbolle un brodo preparato con un pesce volante proveniente da Nagasaki, lasciato intero, che viene eliminato appena prima di iniziare la preparazione dello shabu shabu. Al brodo viene poi aggiunto del latte di soia.

Lo chef e i camerieri si muovono rapidi nella piccola cucina davanti a noi, li osserviamo attraverso una cortina di bottiglie di sake che vengono spostate ogni volta che un piatto deve essere servito. Anche il sipario di bottiglie davanti a noi si apre e ci vengono presentati i vari piatti che compongono la pietanza. C’è una ordinata composizione di verdure, grosse foglie di spinaci, di cavolo, di lattuga, petali di crisantemo; c’è poi del tofu, morbido e dalla consistenza setosa, del tutto ingestibile con le bacchette; infine ci viene servita la carne, sottilissime fettine di filetto di manzo wagyu, pregiato e riccamente venato di grasso grazie alle tecniche di allevamento di questa razza. Le verdure vanno cotte facendole ondeggiare nel brodo, cosi che producano quel rumore tipico, ossia shabu-shabu; la carne va invece lasciata ferma nel brodo per non rovinarne la fibra. Quando gli ingredienti sono cotti, vanno intinti nella salsa ponzu, che arricchiamo con una pasta dal sapore agrumato e intenso, preparata con yuzu, una sorta di arancia, e wasabi. Un po’ di timore di sbagliare qualche cosa c’è e sarebbe molto deludente, visti la gentilezza e l’impegno con cui il personale si occupa di noi. La carne è deliziosa, si scioglie in bocca, il sapore è avvolgente e ricco, così come le varie consistenze. Persino io che normalmente non mangio carne, adoro questo piatto. Il pasto si svolge lentamente, siamo rilassati e ci godiamo le attenzioni dei camerieri che non ci lasciano un attimo con i piatti o bicchieri vuoti. Il sake accompagna questa delizia, il sipario di bottiglie si apre a ritmo sostenuto. Quando siamo sazi, rimane ancora molto brodo nella pentola, così ci vengono serviti degli spaghetti di riso da cuocervi e da gustare poi con una salsa di sesamo e peperoncino semplicemente deliziosa. Concludiamo la cena con un dessert a base di mochi, i tipici dolcetti morbidi preparati con farina di riso e, quando riusciamo a rialzarci dai tatami – impresa non indifferente vista la stanchezza! – ci immergiamo nuovamente nel bagliore dei lampioni della stretta via principale di Pontocho per tornare al nostro appartamento.

Dall’alto della collina di Inari ho divagato e fatto un salto nel tempo, avevo bisogno di riprendere fiato prima di incamminarmi per completare il sentiero.

Proseguo attraverso il ritmico alternarsi dei torii, una bambina mi corre incontro, mi sfila accanto veloce, mi giro e vedo Chio che corre goffa sul lastricato nel suo kimono chiaro con l’obi arancio.

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